La Germania, locomotiva d'Europa, è in
recessione; il suo motore economico, settore manifatturiero in particolare, è
imballato. A risentirne sono tutti subfornitori e i loro paesi, fra cui la
Svizzera.
Il Governo tedesco sembra oramai convinto di
abbandonare l’ortodossia dello “zero
deficit di bilancio” di cui è paladino. Si parla di 50 miliardi di EU per
affrontare l’emergenza clima. A smuovere il governo, oltre le manifestazioni di
millennials ed ecologisti, è senz’altro la “coalizione” tra governanti delle
maggiori città situate nei distretti industriali che hanno aderito alla
“Campagna Emergenza clima” e CEO di grandi aziende industriali.
La Campagna assegna massima priorità alle misure
urgenti per limitare le emissioni di CO2 generate dal traffico veicolare
(riduzione delle corsie stradali, aumento tariffe parcheggi, più piste
ciclabili), dal cattivo isolamento termico degli edifici, e prevede pure la piantumazione. Gli industriali, in
primis quelli dell’importante settore automobilistico, per bocca del CEO di VW,
sono stati perentori con la cancelliera Merkel: “lo Stato acceleri la
conversione energetica all’elettricità e l’uso delle sole risorse rinnovabili.
Noi costruiremo veicoli elettrici, salvando clima e lavoro”. Gli investimenti
annunciati favoriranno certamente una solida crescita, e con essa impiego,
reddito e domanda solvibile, facendo ripartire il motore economico. E lo Stato
potrà affrontare gli oneri del debito. Parrebbe una strategia “win-win”. In
effetti la vettura elettrica è CO2 neutrale, ma solo quando viaggia! Per costruirla, in particolare la batteria,
occorre molta “energia grigia”, materie prime e sostanze rare, come il cobalto;
e lo smaltimento produce scorie. Insomma il ciclo di vita della vettura
elettrica impatta negativamente sull’ambiente.
Questo, spiega P.Bihouix, vale per qualsiasi
attività economica: essa “necessita di materie prime e/o energia, rigetta nella biosfera (aria, acqua, terra, e
sottoterra) le scorie (molecole varie e gas, fra cui quelli ad effetto serra,
materiali), oltre che calore”. Il
bilancio attuale dei paesi industrializzati è negativo: quanto consumiamo e
rigettiamo nell’ambiente sorpassa la capacità biologica del globo di rigenerare
risorse (impronta ecologica negativa).In Svizzera a fine marzo di ogni anno
abbiamo già esaurito tale capacità.
Continuare in tale direzione significa
distruggere il “capitale naturale” ovvero – come affermano T. Jakson, P. Victor
- “ciò che la natura ci offre: acqua, aria, terra, materie rare, ecosistemi con
animali, piante, che a loro volta forniscono servizi a noi utili. Da decenni la
crescita (di capitale fabbricato) è diventata antieconomica: le disutilità
superano i benefici ad essa dovuti”.
Il cambiamento climatico è solo la punta
dell’iceberg, che cela fenomeni distruttivi e irreversibili. Per preservare il
capitale naturale, gioco forza cambiare registro; tre parole: sobrietà,
parsimonia, condivisione. Per dirla con Bihouix: la via da seguire è “riciclare
al meglio le risorse, aumentare la durata di vita dei prodotti, ripensarli e
concepirli in maniera semplice e solida, riparabili e riutilizzabili,
standardizzati, modulari; utilizzare materiali semplici, facili da smaltire,
riducendo al minimo le risorse rare, limitando il materiale elettrico”; ”privilegiare
produzioni a km 0, meno meccanizzate e
robotizzate, ma parsimoniose per quanto riguarda risorse ed energia; sistemi
articolati in una rete di recupero, rivendita, condivisione degli oggetti della
vita quotidiana”. Ovvero: occorre un riorientamento socio economico che
prefiggendosi di valorizzare l’indispensabile capitale naturale, pur non
potendo raggiungere i livelli di produttività odierni, consenta di attivare o
rilanciare circuiti economici virtuosi locali
e regionali.
Pubblicato su Area,
Martedì 29 agosto 2019 link
Nessun commento:
Posta un commento