Parrebbe che dopo tanti falsi segnali l’agognata ripresa economica sia giunta. A prescindere
dagli effetti sul saldo dei posti di lavoro provocati dalla nuova rivoluzione industriale che si va
diffondendo, v’è un enorme problema, sottaciuto e trascurato: la precarietà e la povertà di ampie
fasce della popolazione nei Paesi prosperi come la Germania o la Svizzera. Il 15% della
popolazione germanica è povera, tra i quali pensionati, con una rendita o un risparmio
insufficiente, obbligati a cercarsi un lavoro per sopravvivere. Acuta pure la situazione di giovani
che non trovano un lavoro di lunga durata. Ma a far tremare il colosso tedesco sono le previsioni
future riguardanti il reddito di coloro che tra 10-20 anni raggiungeranno l’età della pensione:
milioni di poveri ovvero di coloro che oggi lavorano ma saranno sguarniti a livello di previdenza.
La Bundesbank preoccupata ha lanciato un trillo d’allarme. Il miracolo tedesco poggia su piedi
d’argilla, risultato di una politica di liberalizzazione promossa dal cancelliere Schröder alla fine
degli anni 90 per stimolare l’economia e il lavoro; fra le misure per il lavoro i «minijobs»: 15 ore
di lavoro settimanale per 450 euro. Essi sono stati descritti come la panacea: piacciono alle
aziende che ingaggiano personale pagando solo il 30% dei contributi di legge, sono utili a
pensionati che possono così arrotondare la rendita e alle persone in cerca di lavoro, e infine allo
Stato che vede abbassare il numero dei disoccupati. Nascosti per lungo tempo e ora venuti alla
luce i lati oscuri: l’abuso di molte aziende che assumono le persone con un contratto minijobs,
offrendo anche lavoro extra, ma pagandolo in nero, quindi senza contributi sociali né tasse, e
d’altro canto la magra rendita di pensione che una persona matura con un anno di minijobs: 3,11
euro mensili! In Svizzera non abbiamo i minijobs e apparentemente siamo al riparo dalle nefaste
conseguenze. Ma forse non tutti sanno che coloro che beneficiano di una indennità di
disoccupazione sono esonerati dal versare i contributi del 2° pilastro, e quindi il loro capitale di
vecchiaia non aumenta. Siccome la probabilità che una persona possa incappare in un periodo
di disoccupazione, addirittura più di uno nell’arco della sua vita attiva, tende ad aumentare, sale
pure il numero di persone che si ritroveranno con una misera rendita di pensione. Per molti
lavoratori nostri, alla stregua dei loro colleghi tedeschi, il domani è tenebroso; pur riuscendo oggi
a sbarcare il lunario, si ritroveranno al momento del pensionamento con un cumulo di rendite
AVS e CP al disotto della soglia di povertà. E sono eloquenti i segnali del crescente disagio,
quali l’impennata delle persone richiedenti l’assistenza, gli over 50 che faticano a ritrovare
occupazione e l’aumento dei sottoccupati che vorrebbero lavorare di più per aumentare il loro
reddito ma non trovano sbocco. L’immagine della Svizzera isola felice s’offusca. Inutile far finta
di nulla, due Paesi «solidi», la Germania addirittura presa quale esempio da seguire, celano in
grembo una dirompente bomba a orologeria che provocherà una voragine mettendo a
soqquadro il sistema socio economico esistente. Il re è nudo! Scopriamo l’altra faccia delle
politiche neoliberiste, quella nascosta con meccanismi le cui ripercussioni future saranno
disastrose. Performance economiche tanto vantate, costruite «sulla pelle» di molti lavoratori:
costretti a vivere con un reddito appena sufficiente durante la vita attiva e che saranno poveri
quando andranno in pensione. Aumentare l’età pensionistica per salvare il sistema del welfare e
della previdenza, come auspicato dalla Bundesbank e dal nostro Parlamento è un ulteriore
escamotage contabile: non modifica le cause del problema e non può eluderle. Ai propugnatori
di tali soluzioni sembra «sfuggire» il cambiamento intervenuto negli ultimi anni e che è il risultato
della liberalizzazione, in questo caso delle forme di lavoro. D’un lato il lavoro c’è, ma non
sempre, e magari solo per una durata limitata e non per tutti contemporaneamente, e dall’altro
nuove forme di lavoro, sempre più diffuse che sostituiscono quelle del contratto a tempo
indeterminato che per anni sono state dominanti e su cui si basa il finanziamento del welfare e
della previdenza. Contratto a tempo determinato, lavoro interinale, su chiamata e per i giovani di
lavoro autonomo stanno dilagando. Sono forme flessibili, apprezzate dalle imprese perché
possono modulare il lavoro come vogliono, secondo il bisogno, e anche dagli stessi lavoratori
che le scelgono o sono obbligati ad accettarle in mancanza d’altro. Forme nuove, anche
ammesse dalla legislazione che però lasciano scoperto il finanziamento della previdenza e,
quando avviene, con una copertura insufficiente. Non ci sono miracoli in economia: forza di cose
prendere atto che il sistema economico attuale, oltre a non risolvere i problemi, addirittura li
amplifica. Per andare di metafora: se le fondamenta sono d’argilla un giorno o l’altro l’edificio
crollerà.
Pubblicato in CdT, il 5 maggio 2017
Pubblicato in CdT, il 5 maggio 2017
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