Il dramma umanitario in Libia continua. A oltre due mesi dalla decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite che con la risoluzione 1973 approvava l’intervento per proteggere la popolazione civile, siamo oramai arrivati alla vera e propria guerra, con tutto ciò che ne deriva per i civili, mossa sotto l’egida della NATO contro il governo Libico, con lo scopo dichiarato di abbatterlo. Non esistendo un potere sopranazionale, l’unico punto di riferimento a disposizione degli stati per regolare i problemi nelle relazioni internazionali è la Carta delle Nazioni Unite, voluta, all’indomani del 2° conflitto mondiale, per “salvaguardare il mondo dal flagello della guerra”. Essa precisa nei suoi capitoli e articoli le procedure da adottare per regolare le questioni fra stati ed affrontare gli eventuali conflitti. Carta a cui si rifà la suddetta risoluzione per l’intervento in Libia. Apparentemente dal punto di vista formale tutto appare legittimo, sennonché le discussioni tra fautori e contrari all’intervento non accennano a diminuire, mostrando sempre più divergenze, mentre i pareri di specialisti in materia, poco citati dai media, evidenziano parecchie incongruenze che vale la pena di considerare. Premesso che la decisione sul chi sia degno governare un paese e di rappresentarlo debba essere affrontata in modo autonomo dal popolo stesso, la questione centrale riguarda il diritto d’intervento militare esterno in uno stato sovrano. Buona cosa è quindi riferirsi direttamente alla Carta delle NU per evincere cosa sta scritto. Intanto l’art 2 di detta Carta non autorizza le Nazioni Unite ad” intervenire in questioni che appartengano essenzialmente alla competenza interna di uno Stato” benché si riconosce che ciò “non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo VII.” Capitolo che affronta questioni relative alle Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione. In esso viene affermato che “Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’art. 41- ovvero misure non implicanti l’uso della forza- siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. Ma attenzione la Carta (art 47 e 47) precisa che la responsabilità di direzione e coordinamento delle operazioni militari di tutte le forze armate implicate vanno assegnate ad uno speciale Comitato di Stato maggiore, alle dipendenze dello stesso Consiglio di sicurezza. Da ciò si deduce che l’azione militare in Libia non ossequia la Carta delle Nazioni Unite, tanto meno l’assunzione delle operazioni da parte della NATO che, senza un mandato diretto del Consiglio di sicurezza, è fuori luogo. Ma non è tutto: vale la pena di ricordare che la suddetta risoluzione è stata presa dal Consiglio di Sicurezza adottando il principio di “protezione umanitaria”, invocato da Stati uniti e alcuni stati europei, sostenitori dell’intervento. Il principio di “protezione umanitaria”, sostituisce quello di “ingerenza umanitaria”, voluta a suo tempo da Bernard Kouchner, già ministro francese, e dal giurista di diritto internazionale Mario Bettati, i quali sulla spinta dell’indignazione popolare provocata dal genocidio in Rwanda proposero che la comunità internazionale doveva agire preventivamente quando uno Stato non era più in grado di garantire la protezione della sua popolazione, specificatamente in relazione a quattro scenari: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica. Nel 1999 il principio d’ingerenza umanitaria fu invocato dall’occidente per giustificare l’intervento armato in Kosovo, deciso tuttavia al di fuori della Carta delle NU. L’operazione, come ricorda Andrea Bianchi professore al Graduate Institute di Ginevra, provocò una forte scissione nel seno della comunità internazionale: i paesi non allineati parlarono di aggressione e di uso ingiustificato della forza. Il termine d’ingerenza umanitaria cadde in discredito e su proposta del governo canadese che presentò un documento intitolato “la responsabilità di proteggere”, fu sostituito con quello di “protezione umanitaria”: il carattere colonialista del diritto di ingerenza fu così “cancellato” mediante un sotterfugio semantico. Rimane tuttavia la sostanza, e gli interrogativi riguardanti l’applicazione di tale principio, che arrischia di esser fatta secondo convenienza e interessi di parte, o come a “geometria variabile”: perché Libia si, invece Bahrein, Yemen, Arabia Saudita, Siria: no? A prescindere da ciò, deve generare forte preoccupazione l’uso sconsiderato che viene fatto della Carta che è, e resta pur sempre, l’unico strumento riconosciuto dagli stati membri delle Nazioni Unite per affrontare e regolare i problemi. La non osservanza dei suoi articoli o un loro stravolgimento, come dimostrato, ne mina la legittimità e rappresenta un vero e proprio sberleffo. Epoca paradossale la nostra, in cui linguaggio e azioni sono in netto contrasto: in nome della pace si sabotano accordi e convenzioni costruiti con tanta fatica nel corso di tanti anni e che miravano proprio a tale scopo. È un momento storico caratterizzato da chiusure ideologiche, in cui a difesa d’interessi di parte riaffiorano unilateralismo e integralismo, che presagiscono eventi oscuri per il prossimo futuro dell’umanità, il funzionamento delle istituzioni internazionali: una minaccia per la pace e la democrazia.
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