“Il virus ha
dimostrato di essere in grado di entrare negli ingranaggi del sistema
mettendolo in crisi in quattro e quattr’otto. E siccome è successo una volta, a
bocce ferme si dovrà riflettere sul come fare affinché il copione non si
ripeta. È quindi auspicabile che, superata l’emergenza, la crisi generata dal
Covid-19 ci spinga a una riflessione più profonda sulla necessità di
riorientare il nostro modello economico imperante “ scrive il dir. Caratti nel suo editoriale dell’11 marzo.
Le
ripercussioni sul sistema economico, sociale provocato dalla rapidissima
diffusione del Coronavirus, lasciano allibito il comune cittadino, ma hanno
colto impreparati anche i governanti. Quanto stiamo vivendo non è simulazione,
bensì realtà con pesanti e dolorosi risvolti sia sociali sia personali. Ma
anche conseguenze economiche per aziende e personale toccati dalle misure di
contenimento. È venuto alla luce un fattore sottovalutato o ignorato: la debolezza del sistema economico globalizzato
dipendente da una sola area. La lunga e complessa catena di produzione della
fabbrica mondo si è bloccata, quando le
autorità cinesi hanno messo in quarantena dapprima Wuhan, epicentro dell’epidemia, metropoli di
oltre 11 milioni di abitanti, capitale
della regione Hubei, il nodo ferroviario più importante della Cina. È la
Detroit cinese dell’automobile, la valle dell’ottica (¼ delle fibre ottiche
mondiali) e uno dei maggiori poli dell’elettronica, soprattutto componenti, che
con altre distretti tecno industriali cinesi, pure toccati dalle ferree misure
governative, alimenta anche il just in
time dei paesi occidentali.
Nel
2002, la
Cina rappresentava solo il 4% di questo commercio. Oggi la sua quota è quasi
del 20%. Un rallentamento o interruzione delle forniture si ripercuote
direttamente sull’attività di aziende anche in tutto il mondo in una sorta di
effetto domino; anche nella nostra Elvezia. Senza contare che la dipendenza arrischia addirittura di
generare penuria beni di prima necessità come i prodotti farmaceutici di uso
corrente - vedi Dafalgan – provenienti
dalla Cina. “Il "business as usual" non è più un'opzione” scrive
Isabel sottosegretaria della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo
(CNUCES)- ciò di cui abbiamo bisogno è un modello di organizzazione
dell’ economia aperto, più diversificato
in termini di produzione e con catene del valore più brevi: un forte argomento
a favore dell'integrazione regionale”. È una
buona premessa, anche se non nuova: è dagli anni 70 che gli esperti,
inascoltati, propugnano diversificazione
e sostenibilità.
D’altronde ora non c’è altra scelta, pressati anche dagli effetti del cambiamento climatico e da quelli di industria 4.0 che, con IA e robot, sostituisce le persone in ambiti finora di solo competenza umana.
Onde evitare sorprese ed impreparazione gioco forza anticipare ed iniziare già sin d’ora a definire le condizioni umane, sociali, ambientali cui il futuro modello d’economia dovrà rispondere. È un compito della politica. Ma il treno degli auspici arrischia di andare nella direzione contraria:
Ursula von der Leyen, presidente dell’UE, ha dichiarato che intende giungere a siglare il nuovo trattato Ttip per liberalizzare il commercio Usa-Ue entro un mese… Insomma i grandi gruppi tecno industriali e i potenti fondi d’investimento non mollano la presa. Come dire: addio sostenibilità e diversificazione! Politici e partiti dovranno dimostrare capacità di voler innovare. Ai cittadini e loro associazioni, spetta il compito di esercitare pressione affinché non si perda di vista l’obiettivo.
Pubblicato in La Regione, 18 marzo 2020
Nessun commento:
Posta un commento