lunedì 15 aprile 2019

Clima tra il dire e il fare


I “millennials” non mollano: mettono sotto pressione i governanti, esigono fatti concreti per contenere il surriscaldamento a 1.5° entro il 2050. Sappiamo che per farlo occorre azzerare immediatamente le immissioni di gas ad effetto serra, utilizzando energia prodotta con risorse rinnovabili, lasciando sottoterra quelle fossili - oggidì il 70 % delle fonti energetiche.
È una sfida ciclopica, ma anche un’opportunità per cambiare il modello di sviluppo dominante, ai margini del collasso. Il motto della sfida: parsimonia, efficienza e resilienza. Concretamente:
    1. riorganizzare la mobilità, riducendo drasticamente il trasporto individuale motorizzato (TIM) – dando priorità assoluta a quello pubblico (TP)
    2. riorientare la pianificazione urbana insediando posti di lavoro facilmente accessibili con TP, e realizzando quartieri residenziali, intergenerazionali, con negozi, commerci e servizi al cittadino di prossimità, pure asserviti dai TP
    3. optare per la produzione agricola e alimentare secondo i principi biologici, a km 0, abbandonando quella industriale (il cui bilancio energetico è estremamente deficitario: 10 calorie di origine fossile per 1 caloria alimentare prodotta) che necessita di ingenti quantitativi di acqua, di fertilizzanti sintetici e pesticidi che avvelenano terreno e falda, acidificano gli oceani
    4. ridurre drasticamente i trasporti a lunga distanza (aerei, navi , su gomma) di merci, riportando la produzione di beni prossima al mercato.
Le condizioni sopra elencate incontrano tuttavia enormi resistenze di vari attori socio economici. Ovviamente delle grandi compagnie che estraggono, commercializzano petrolio, carbone, gas; degli stati che traggono profitto dalle tasse sull’esportazione; di traders che curano le transazioni (la Svizzera è il centro principale); ma anche di aziende chimiche dell’agro business. Poi di attori vari che producono e/o commercializzano merci a livello mondiale, per mercati distanti migliaia di km, utilizzando vari tipi di trasporto: navali, aerei, su gomma. Ma anche di sindacati che lottano per la salvaguardia di posti di lavoro anche se in contraddizione con i presupposti climatici ambientali. Infine, e non ultimo, il singolo cittadino, con le sue abitudini di consumo, di uso del veicolo motorizzato per recarsi al lavoro, a fare acquisti, volare a Londra per un fine settimana.
Cambiare significa coerenza tra impegni, decisioni e azioni. In primis eliminando quello “bipolare” di governanti e politici che a parole riconoscono interconnessione tra clima modello e di sviluppo, ma poi optano per il “laisser faire” piegandosi agli interessi delle grandi società. Basta prendere l’esempio di quanto accaduto al recente meeting di Davos, dove Bolsonaro, neo presidente di un grande paese come il Brasile, spalancando le porte alla deforestazione amazzonica e al saccheggio delle sue risorse, ha mandato in visibilio i manager delle big che l’ascoltavano ricevendo la benedizione dal Presidente delle Confederazione Maurer: “Davos è business”.
Una forma mentis contraddittoria che ritroviamo nel nostro paese, dove
hanno il vento in poppa progetti di ampliamento di aeroporti, costruzione
di nuove autostrade, edificazione di ressort di lusso in cima a montagne, costruzione di sentieri in plastica sul lago per attirare il turista. Il tutto condito con grandi dichiarazioni salvaguardia dell’ambiente,
paesaggio e natura.
A ben guardare significa mettere in discussione crescita, concorrenza e libero scambio. Tre principi che sono una sorta di “mantra”, per governanti, forze politiche ed una folta schiera di economisti. Un’impasse “volens nolens” da superare. 


 Pubblicato in La Regione, 30 marzo 2019

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